Paolo Cacciari | 4 maggio 2018 |
La caratteristica fondamentale dei “beni comuni” (commons intesi come risorse, forze e sistemi sociali integrati) non è costituita solo dal loro grado di accessibilità e inclusività e nemmeno solo dalla loro inalienabilità, inappropriabilità e preservazione, ma attiene alle forme organizzative e alle modalità della loro gestione, che si presume debbano essere condivise, responsabili, pienamente partecipate e democratiche. L’idea che esistano dei beni e dei servizi, fisici o immateriali, naturali o sociali, concreti o cognitivi, situati o eterei, locali o globali…che appartengono alle comunità viventi nei loro diversi insiemi è un concetto forte, decisamente controcorrente rispetto all’ordinamento socio-giuridico dominato dal pensiero liberista, borghese, sessista e specista.
I commons stanno a significare l’esistenza di risorse indisponibili ad una gestione che esclude dal loro utilizzo le comunità afferenti. Sono risorse necessarie a soddisfare le loro esigenze. Sono quindi patrimoni, beni e servizi pubblici, ma con una valenza e un vincolo in più. Come abbiamo imparato a conoscere sulla nostra pelle, nemmeno la demanialità – in qualsiasi forma sia possibile immaginare la proprietà e la sovranità statale – garantisce la tutela e l’equa condivisione dei benefici generati dai commons.
I beni comuni, quindi, non solo sono “fuori mercato” (estranei e irriducibili alle logiche della domanda e dell’offerta e della mercificazione), ma anche fuori dalla potestà dello stato-istituzione-tecnica-amministrativa. Quando si dice che i beni comuni sono di tutti e non appartengono a nessuno, si deve intendere qualsiasi soggetto che pretenda titoli di diritti esclusivi, assoluti, Stato apparato-politico compreso. Ha scritto magnificamente Stefano Rodotà: «I beni comuni tendono a configurarsi come l’opposto della sovranità, non solo della proprietà» (Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari. 2012). In pratica, la comunità che costituisce un commons – a cui il bene comune in questione si riferisce – rinuncia a disporre a suo piacimento del bene e a farne un uso che ne possa compromettere la conservazione e l’utilizzo collettivo, anche nell’ottica transgenerazionale. In pratica una cessione di sovranità. Pensiamo ai beni naturali, agli ecosystem services, alla Terra come macrorganismo vivente, Gaia o Pachamama, portatrice di propri diritti fondamentali. (Pensiamo alla costituzione dell’Ecuador o al tribunale della Nuova Zelanda che – nel marzo 2017 – ha riconosciuto al fiume Whanganui lo status di “persona” e quindi gli stessi diritti di un essere umano, a partire dal più fondamentale di tutti che è il diritto all’esistenza).
Pensiamo ai saperi, alle conoscenze, ai beni storici e artistici che si sono accumulati nel corso dei secoli ad opera delle generazioni che ci hanno preceduto e che abbiamo ereditato senza particolari sforzi né meriti. Pensiamo ai digital commons. Pensiamo anche allo stesso lavoro umano inteso come la principale energia creativa collettiva a disposizione dell’umanità per rispondere ai propri bisogni e sogni. Sono tutti commons. E sappiamo bene che ogni singolo bene comune può venire catturato, recintato e proprietarizzato grazie all’azione congiunta delle strutture di potere militari, economiche, giuridiche e culturali. Oppure i beni comuni possono costituire la base a disposizione di tutti gli esseri umani per realizzare organizzazioni sociali solidali, paritarie, sostenibili, durature.
Dobbiamo quindi intendere i beni comuni non come “cose” separate e indipendenti dalle relazioni sociali che si instaurano tra le persone, ma come una particolare modalità di formazione delle communitas basata sulla cooperazione, la condivisione e la responsabilità. I commons sono una modalità di auto-regolazione attraverso la quale persone e cose si specificano e si integrano (De Angelis, M., Omnia Sunt Communia. On the Commons and the Trasformation to Postcapitalism, The University City of Chicago Press Books, 2017). Ha scritto Ugo Mattei: «Noi non “abbiamo” un bene comune, ma in un certo senso “siamo” bene comune» (Mattei, U. Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari. 2011). Non lasciamoci ingannare dalla traduzione letterale di commons[1]. I “beni comuni” sono un sistema di pensiero, una immagine mentale del mondo, un modo di vedere le cose e di immaginare come poterle usare condividendole. Ha scritto David Bollier: i commons non sono «una definizione (giuridica) per “l’interesse pubblico”, quanto piuttosto una sorta di filosofia politica dotata di specifici approcci operativi e con effetti a lungo termine, perché ci coinvolge pienamente in quanto esseri umani». (Bollier, La rinascita dei commons. Successi e potenzialità del movimento globale a tutela dei beni comuni, Stampa alternativa, 2015).
I beni comuni, quindi, sono un repertorio di azioni (commoning), di pratiche di lotta e di cittadinanza, di esperienze e di istituzioni autogestionarie, di istituti di self-governance e mutualistici che danno vita a comunità attive di persone che decidono di auto-normare l’uso delle risorse che riescono a disporre in modo condiviso, partecipato, pienamente democratico. L’idea dell’autogoverno è bene espressa da molti pensatori e attivisti dell’America Latina. Gustavo Esteva parla della creazione di “ambiti di comunità autonome”, di zone autosufficienti collegate tra loro, sul modello delle Minga andine (Massimo De Angelis, L’arcipelago dei commons). Da noi la scuola dei territorialisti di Alberto Magnaghi studia da tempo le forme di “gestione comunitaria del territorio”. L’idea generale è quella della decisionalità diffusa, orizzontale, aperta, inclusiva. Nessun rischio di confusione, quindi, con il comunitarismo identitario essenzialista, nessuna nostalgia neomedievale.
Certo i beni comuni, hanno una indubbia valenza economica, ma non si dissolvono nei “fattori” della produzione delle merci. Non sono spendibili sul mercato. Hanno un valore in sé stessi, per le caratteristiche intrinseche che la collettività attribuisce a loro. É possibile quindi ipotizzare non solo una fattispecie giuridica dei beni comuni (vedi le proposte della Commissione Rodotà di riforma del Codice civile e la recente legge sui Domini collettivi, n° 168, G.U. 28/11/2017), ma anche una economia dei beni comuni (un altro modo di produrre, scambiare, usufruire, rigenerare) e una società dei beni comuni che si fonda su un ideale antropologico diverso da quello dell’homo oeconomicus, dell’individualismo proprietario. Chiamiamolo homo reciprocans, homo solidarius o semplicemente homo dignus (Louis Dumont). L’importante è immaginare individui dotati di senso di giustizia, capaci di condividere il godimento dei beni comuni in modo pacifico, paritario ed equanime.
Insomma, i commons ridefiniscono i rapporti economici e sociali. Superano i dogmi della proprietà esclusiva e della stessa sovranità unica e indivisibile del popolo incarnata nel soggetto-stato. Il riconoscimento dei diritti dei commoners esclude la possibilità che vi possano essere autorità sovradeterminate che nel nome di un presunto “interesse generale” e del “principio di maggioranza” si arroghino il potere di annullare l’autonomia delle comunità situate. Ogni riferimento alla militarizzazione della Val di Susa, al TAP in Salento, al Muos a Niscemi…non sono casuali.
Forse è la radicalità del concetto esteso di beni comuni (che giunge fino a mettere in dubbio l’idea dello “stato di diritto” delle democrazie liberali) che risulta ostico anche per quanti a sinistra sono prigionieri del mito dello stato come autorità “terza”, organo neutrale di garanzia. In verità ci sono stati momenti storici in cui si presumeva che tutto potesse essere messo in comune: Omnia sunt communia, proclamavano le comunità cristiane in origine. Ancor oggi, quando si tratta di far fronte a necessità estreme, il Diritto canonico prevede la possibilità di mettere in comune i beni secondo la massima di San Tommaso: “In extremis omnia sunt communia”. Il motto “Omnia sunt communia” guidava i movimenti ribelli dei contadini protestanti del XVI secolo di Thomas Müntzer, fautore di una società egualitaria (Mattei, U., Il benicomunismo ed i suoi nemici, Einaudi, Torino, 2015).
[1] Nell’accezione che ho qui cercato di riassumere, sarebbe forse più corretto tradurre commons con comunalità o comunanza. Eviteremmo così l’errore molto frequente di considerare i “beni comuni” come delle “cose”. «Common – ci ricorda lo storico Peter Linebaugh – ha una straordinaria varietà di accezioni in inglese, e parecchie di queste accezioni non sono scindibili da una storia sociale ancora attiva (…) La radice lessicale è communis, latino, che deriva alternativamente, da com-, latino – insieme – e numus, latino – sotto obbligazione – , e da com- e unus, latino – uno. Così si può riferire parimenti o a un gruppo specifico o all’umanità in generale» (Linebaug, Meandering on the Semantic-Historical Paths of Communism and Commons, web journal “The Commoner”, www.thecommoner.org. trad. it. di: Maurizio Acerbo, Dai commons al comunismo, in “Su la testa”, dicembre 2010. Miguel Martinez, che di professione fa il traduttore, specifica che: i) commons sono risorse condivise; ii) commoners sono coloro che si prendono cura dei commons; iii) commoning è l’attività di cura dei commons (Martinez, M., Gli otto punti dei commons, in www.comune-info.net, 2017).
Pubblicato anche dal Granello di Sabbia n. 33 di Marzo – Aprile 2018: “Fuori dal mercato”.